
La solitudine è una condizione essenziale al sapere stare con gli altri. Mettendoci faccia a faccia con noi stessi, riusciamo a conoscerci e a capire cosa ci serve per colmare quel vuoto che cerchiamo di riempire frequentando persone e facendo cose che, spesso, ci fanno sentire più soli.
Nel vuoto si spegne il caos delle voci esterne e si sentono finalmente quelle interiori, di cui possiamo cogliere i suggerimenti allo scopo di vivere meglio. Per quanto possa sembrare “strano”, la solitudine aiuta a non sentirsi soli, a alleviare il dolore causato da un senso di estraneità ed isolamento, dal percepirsi non visti, non amati. Attenzione! La cosa non riguarda soli single ma anche chi ha un partner; anzi, non c’è sofferenza peggiore di chi si sente solo pur stando insieme (almeno formalmente) a qualcuno. Come prendersene cura?
Presenza mentale versus Solitudine
La psicologia occidentale passa in rassegna vari tipi di solitudine e fa dei distinguo; ad esempio, tra quella affettiva e quella sociale. La psicologia buddhista, invece, ci invita a rinunciare a tutti questi pensieri. Nel sutra sul modo migliore per vivere soli, il Buddha dice: “Non inseguite il passato. Non perdetevi nel futuro. Il passato non c’è più; il futuro non è ancora arrivato. Osservando la vita a fondo così com’è proprio qui e ora, il praticante dimora nella stabilità e nella libertà”.
Coltivare la presenza mentale, quindi, è un’ottima soluzione contro il dolore del sentirsi soli. Invece di ricordare i tempi passati, di tormentarsi per ciò che non c’è più, di rimpiangere le occasioni perse, di anelare a ciò che non c’è ancora, la presenza mentale ci invita a stare soli con quello che c’è adesso ed a sanarlo con questa prassi.
Leggendo quanto su riportato e mettendo in pratica queste parole, ci accorgiamo che c’è una bella differenza tra il sentirsi soli (cioè patire questa condizione) e lo stare soli ossia porsi nella condizione di essere presenti a sé stessi e a sviluppare il terreno più propizio alla costruzione di una felicità duratura.
L’arte di stare soli
Sviluppare l’arte di stare soli è quindi un passo fondamentale nella costruzione della libertà, stabilità e di una duratura felicità. Si arriva in modo esperienziale, praticando fino a comprendere una cosa importante: se vogliamo stare bene la prima rinuncia da fare sono in nostri pensieri, sul passato e sul futuro. In questo modo dissolviamo l’attaccamento a ciò che ci sembra desiderabile e l’avversione per ciò che ci sembra indesiderabile.
A quel punto, il momento presente si offre in tutta la sua generosità e ci colma di pace e di un’energia che trasforma il senso di solitudine in una spaziosità luminosa. Facendo esperienza di questa spaziosità ecco che emerge un senso di libertà, serenità. È in questa “solitudine”, in intimo raccoglimento che ci accorgiamo che non c’è più una sofferenza da combattere perché è scomparsa. È la presenza di quel momento che opera la trasformazione, che calma ogni sofferenza e ci accompagna in un nuovo territorio di pace in cui possiamo praticare altre meditazioni benefiche, capaci di farci sentire in connessione con l’universo.
Nota bene! Pensare a tutto questo non serve a nulla; è il farne esperienza diretta – attraverso la meditazione – che permette di sanare alla radice il dolore della solitudine, cancellando nel nostro profondo ogni senso di separazione.
La paura di restare soli
A volte, la tristezza della solitudine nasce quando dopo accadimenti naturali come la fine di una relazione sentimentale o la morte di una persona cara, si comincia a nutrire la paura di restare soli al mondo. La paura ci fa sentire soli prima di esserlo e nutre una tristezza che può sfociare in prostrazione. È importante rendersi conto di questo processo il più presto possibile.
Prima di questa falsa percezione si trasformi in narrazione della realtà, calandoci in un film che poi diventa la nostra vera vita. A questo scopo è utilissimo praticare la meditazione per intercettare lo scarto tra la realtà e sua rappresentazione.
La paura della solitudine non vale per tutti e non sempre significa che sfoci in qualcosa di patologico! Anzi, i “ricercatori” di solitudine, talvolta, hanno un quoziente intellettivo più alto. È quanto sostengono due ricercatori (Satoshi Kanazawa e Norman Li, rispettivamente della London School of Economics e della Singapore Management University) nella loro tesi nota come la “Teoria della Felicità della Savana”. Dalla loro indagine sul comportamento di 15.000 giovani tra i 18 – 28 anni è emerso che quelli un Q. I. più alto coltivavano meno amicizie e meno relazioni sociali.
Quindi, senza svalutare il bisogno di socializzazione che è connaturato nell’uomo – e che, se soddisfatto, ci aiuta anche ad invecchiare meglio – non è il caso di spaventarci se non abbiamo voglia di circondarci di persone.
La sindrome della capanna.
Il campanello d’allarme scatta invece quando si entra in una dinamica di fuga dal reale. Purtroppo, la pandemia e le strategie adottate per arginarla hanno favorito la massiccia diffusione di sentimenti di fragilità e insicurezza. Paura e sospetto hanno cominciato a connotare la percezione della vita offline, sicuramente più impegnativa di quella online e apparentemente più sicura perché disegnata come un vestitino su ciascuno di noi grazie all’uso di sofisticati algoritmi che riproducono tutto ciò che più ci assomiglia, aggrada ed è, quindi, rassicurante.
Da qui, la “sindrome della capanna”, cioè la tendenza dopo tanta reclusione ed astensione dai rapporti sociali a rimanere in casa senza più molta voglia di esporsi in presenza. Il problema è che ciò “atrofizza” i neuroni a specchio che ci consentono di comprendere empaticamente il comportamento altrui “specchiandolo”, cioè attivandosi come se fossimo noi a compierlo.
Vengono ostacolati, così, quei processi di sintonia intuitiva e progressiva che si attivano facendo vita sociale. Insomma, quando non è possibile entrare in contatto visivo diretto e leggere i messaggi non verbali, sfuma anche la nostra capacità di empatia. Ciò fa aumentare il senso di isolamento e diminuire le capacità di socializzazione.
Infine, ma non meno importante, nel rifugio digitale si sviluppa una sorta di paura dell’essere umano (in carne ed ossa), percepito come possibile minaccia. Ecco così creato quel circolo vizioso per cui sempre più persone finiscono col ritrarsi in solitudine.
Conclusioni
La soluzione? Proprio per questa percezione della minaccia, trascinarsi fuori dal guscio può essere controproducente. Al contrario, si rivela utile un progressivo addestramento a riconoscere le proprie emozioni ed avvicinarle con delicatezza, senza alcun giudizio né forzatura, attraverso l’agio e la calma generati dalla meditazione di consapevolezza o mindfulness meditation.
Questo approccio gentile può aiutare ad aprire la porta della gabbia scambiata per libertà. E soprattutto a riacquisire fiducia in se stessi per poi poterla riporre anche negli altri. Ecco perché la solitudine è una condizione essenziale!